anno 2013

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09/11/2013

Pizzowhat di Correre - Numero 349 - Novembre 2013 - Non ci sono più i campioni di una volta

PIZZOWHAT
Numero 349
Novembre 2013

Non ci sono più i campioni di una volta... lettera al direttore


Caro Orlando,
mi chiedo se sono io che sono invecchiato o se è il mondo della corsa che è cambiato completamente. La prima affermazione è senz’altro vera (55 anni appena compiuti), ma anche la seconda non mi sembra campata per aria.
Un cambiamento che si avverte già da alcune stagioni, ma che per me è diventato concreto e palpabile dopo i Mondiali di Mosca, dove, Valeria Straneo a parte (con Emma Quaglia pure brava), non si è visto un azzurro sul podio, alcune prestazioni (i giovani siepisti, mamma mia!) avremmo preferito ci fossero risparmiate, altre, come quella di Meucci, ci hanno trasmesso l’inutilità di provare a contrastare il dominio degli africani (anche Mo Farah lo è, in origine, non dimentichiamolo).
La sintesi sembra fin troppo facile: non abbiamo più i campioni di una volta.
Non li abbiamo noi, che sentiamo la nostalgia di quelli come lei e i suoi grandi coetanei (Bordin, se posso, anche se immagino non siate particolarmente amici!), ma non li ha nemmeno il resto del mondo.
Il problema, infatti, sembra essere generale: non ci sono più atleti in grado di emozionare. Un esempio: Lavillenie è bravo, ma non mi sembra Bubka, e non è solo una questione di vincere sempre. Il francese ha perso, ma anche lo Zar di tutte le aste si era preso qualche bella scoppola alle Olimpiadi.
Ѐ una questione di magia e io non la sento più.
«E Bolt – mi obietterà – non è fantastico?»
Si stupirà, ma le confesso che, viste tante volte, tutte quelle sue pose in campo mi sono un po’ venute a noia, soprattutto ora che di otto velocisti schierati in una finale della velocità, non ce n’è uno che non si senta in dovere di aggiungere allo show del primattore il proprio  contributo di gesti e smorfie.
Ѐ un problema mio? Non vorrei che per gli atleti funzionasse un po’ come per le canzoni: ci piacciono di più quelle di quando eravamo giovani.
Ѐ un problema solo mio? Lei si diverte ancora con l’atletica in tv?
Un caro saluto

Vittorio Irmici – San Severo (FG)



Tante cose che ha riportato nelle sue osservazioni le condivido. Non sempre mi diverto, o meglio, mi appassiono a guardare i meeting. Bolt cattura la mia attenzione per qualche decina di secondi. Gli italiani in gara sono quello che sono, e gli africani è difficile contrastarli.
Però l’atletica mi piace ancora. Guardo i meeting e mi interessa ascoltare i commenti e le opinioni, e nell’intimo spero che cada sempre qualche primato (fosse anche solo quello personale, meglio se di un atleta amico).
Le confesso: di solito spero che Bolt perda, ma non tifo contro, non è il mio stile. Mi auguro che gli avversari lo mettano in difficoltà in modo che l’esito della competizione non sia scontato (mi piacerebbe che lui mettesse i blocchi 3 metri dietro a quelli degli altri).
Accetto che gli atleti italiani che stanno arrivando non abbiano un cognome nostrano, e per quel che riguarda gli africani pazienza: affermo sempre che deve essere il migliore a vincere, e per ora loro sono ancora i leader.
Però… gli americani (statunitensi) stanno recuperando terreno e nelle corse io tifo per loro, non perché sono contro gli africani, ma perché, oltre ad ammettere che è giusto che sia il più forte a vincere, il mio supporto morale è rivolto a chi, più debole, può fare meglio. Ed è da loro che si dovrebbe prendere esempio per puntare a tornare sulla cresta dell’onda, come si faceva una volta. Per gli statunitensi il declino podistico è durato un ventennio. Dopo Alberto Salazar e Joan Benoit, c’è stato poco o niente. Kannouchi, Keflezghi e Lagat sono sullo stesso piano di Farah per gli inglesi, ma da qualche anno i corridori bianchi si stanno piazzando sempre meglio. Solinsky, Rupp, Hall, Jager, Ritzenhein, Manzano, Symmonds e tanti altri, duellano con gli africani senza timori reverenziali, anche se da loro hanno imparato parecchio. Dapprima allenandosi a casa loro, successivamente facendo gruppo.
Quest’estate, a St.Moritz, ho avuto modo di vedere proprio gli americani allenarsi assieme, trascorrendo fino a due mesi e mezzo lontani da casa. Si può dire che sono atleti e non hanno impegni, ovviamente, se non quello di allenarsi per gareggiare e che per questo stanno via da casa fino a quando ne vale la pena. Credo, però, che si possa affermare che hanno un’altra mentalità e che sono abituati allo spostamento, perché così fanno agevolmente anche a casa loro. Ѐ facile che un mezzofondista del Massachusetts vada a vivere per mesi nell’Oregon, o che dalle coste della Florida salga sugli altipiani che si trovano in Colorado, Utah e Arizona. Se l’obiettivo è andare forte, molto spesso questa è la scelta da fare. Beati loro che lo possono fare: gli sponsor li supportano e hanno quindi la tranquillità di pensare solo alla corsa, o quasi. E sono convinti che lo stare insieme aiuti.
Ricordo con nostalgia i raduni tecnici di una volta: ci si allenava con spirito cameratesco e stare al fianco del più forte era sempre uno stimolo. Eravamo un bel gruppo. In questi anni, invece, ho incrociato spesso atleti italiani soli.
La faccenda, come lei stesso ha esposto, è complessa, ma mi permetto di aggiungere alla riflessione proprio questo elemento della solitudine: se non ci sono più i campioni italiani di una volta, è anche perché non ci sono più i raduni di una volta.

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