11/08/2012
Il racconto di Paolo - Sulla misura del tempo
RUNNERS&WRITERS
Anno 1 - numero 34
Sabato 11 agosto 2012
Anno 1 - numero 34
Sabato 11 agosto 2012
Sulla misura del tempo
L’Horologium non solo mostra e registra l’ora a vantaggio della nostra vista, ma con la sua campana annuncia all’orecchio di quanti sono lontani o al chiuso della propria casa il passare del tempo. Così, muovendosi di propria iniziativa a beneficio dell’uomo, giorno e notte, esso ci sembra quasi vivo e niente può essere più utile e piacevole.Giovanni Tortelli
Nel mio precedente contributo ho provato a discutere, dal punto di vista storico, la misura della lunghezza, grandezza fisica che certo interessa più di molte altre anche noi podisti. Un’altra grandezza che è in cima ai nostri pensieri quando effettuiamo una gara o un allenamento impegnativo è sicuramente il tempo, e non vi è davvero corridore agonista che non aspiri a migliorare i propri “personali”. Ma chi e quando ha stabilito, ed in base a quali ragionamenti, quanto deve essere “lungo” un secondo, l’attuale unità di misura del tempo nel Sistema Internazionale?
Oltre a rispondere a questa domanda, nel presente articolo proverò a discutere in generale di come gli uomini hanno misurato il tempo, sin dalla più remota antichità. Riporterò anche alcune semplici informazioni storiche sulle misure cronometriche in gare di atletica leggera.
Molti biologi e neuroscienziati ritengono oggi che l’uomo sia tra gli esseri viventi l’unico capace di “concepire” il tempo e, di conseguenza, di mettervi un po’ d’ordine. Per alcuni è forse la caratteristica che più ci distingue dagli altri animali.
L'uomo primitivo si deve essere guardato intorno alla ricerca di qualche fenomeno naturale che, evolvendo in modo ritmico ed uniforme, potesse essere utilizzato come indicatore del tempo che passa. E' noto che qualsiasi evento che si ripeta con regolarità nel corso di lunghi periodi, o qualsiasi meccanismo naturale o artificiale che si muova di moto uniforme, può essere utilizzato per misurare lo scorrere del tempo: potrebbe andar bene allo scopo, ad esempio, il sorgere e il tramontare periodico del Sole, il defluire dell'acqua o della sabbia entro una clessidra (dal greco klepsydra, ladra d’acqua) o il semplice battito del cuore. Ora, fra tutti i fenomeni naturali, con i quali l’uomo primitivo era quotidianamente a contatto, la regolarità dei moti celesti sembrava essere il più evidente indicatore del divenire temporale.
L’identificazione del divenire temporale con l’alternanza del giorno e della notte dipende dall’esperienza immediata di ciascun essere umano. Il giorno è seguito dalla notte, e le subentra di nuovo la mattina seguente. Come discusso nell’articolo sulla misura delle distanze, quando gli uomini hanno voluto misurare la lunghezza hanno scelto unità diverse: cubito, piede, tesa, spanna, palmo ecc. Nel caso del tempo in tutte le epoche e in qualsiasi parte del mondo, s’impose il giorno. La successione dei giorni e delle notti ritma la vita della Terra e regola il lavoro umano. Il giorno è senza alcun dubbio l’unità naturale ed universale della misura del tempo.
E’ importante anche ricordare che i popoli primitivi non pensavano al tempo come a una somma di brevi intervalli eguali, per esempio i minuti o i secondi. Per loro il tempo appariva come un ciclo ricorrente di eventi naturali familiari.
Oltre al ciclo giorno-notte, l'osservazione delle variazioni nell'aspetto della Luna durante un tempo fissato (fasi lunari) e l'identificazione del tempo necessario perché la Luna tornasse ad assumere lo stesso aspetto - per noi il tempo impiegato dalla Luna per tornare nella stessa posizione rispetto alla Terra (detto anche mese sinodico) - dovettero essere tra le prime osservazioni condotte dall'uomo preistorico e uno dei modi possibili per calcolare il trascorrere del tempo.
Le stagioni si succedevano l'una all'altra, in un ciclo annuale (anno deriva da annus, annulus, ovvero anello, circuito del tempo) che si ripeteva di continuo. Anche il movimento delle stelle era ciclico. Questi corpi celesti si ripresentavano sempre uguali, e negli stessi punti della volta, dopo determinati intervalli. L'idea di mutamenti ciclici solo temporanei e dell'invarianza del mondo nella sua totalità dominò nella mente dei pensatori per molti secoli. Si pensava che tutti i fenomeni mutassero ciclicamente, tornando agli stati loro appropriati. Il farsi astratto del tempo, il suo rendersi autonomo, è davvero operazione relativamente recente.
Ma come era divisa a sua volta l’unità naturale di tempo?
L’osservazione degli astri fornisce anche il mezzo per dividere la notte – e il giorno - in unità di tempo stabilite, scegliendo come punti di riferimento stelle fisse, spaziate a intervalli uguali nella volta celeste. La divisione del giorno in 24 tappe (12 diurne e 12 notturne) fu per prima adottata ufficialmente dagli Egiziani, ma aveva le sue radici nella cultura degli antichi Babilonesi.
Il sistema dei numeri adottato in Mesopotamia era basato in effetti sul numero 60, e gli studiosi affermano che è plausibile che ciò derivi in qualche modo dai “30 giorni del mese” e dai “360 giorni” dell’anno (nella ripartizione dell’anno in mesi e giorni è probabile appunto che si lasciarono influenzare dal tempo che intercorre tra una Luna piena e l’altra).
Il percorso del Sole sarebbe stato così considerato come una circonferenza di 360 danne (lunghezze), ovvero di 360°.
Fu Tolomeo di Alessandria (90- 150 d.C. circa) che per primo poi ufficialmente divise ognuno dei 360 gradi di una circonferenza in 60 minuti (60 partes minutae primae) e ogni minuto in 60 secondi (60 partes minutae secundae). Gli astronomi del Medioevo seguirono questa usanza quando introdussero il minuto e il secondo come misure di tempo, dividendo (su base 60) l’ora in intervalli sempre più piccoli (il nome secondo deriva dal latino secundus e fa riferimento al fatto che il secondo è la seconda suddivisione di qualcosa, il grado o l’ora). Come misura di tempo il secondo equivaleva quindi alla 86400-esima parte del giorno (composto ovviamente da 24 ore).
Il rapporto tra la misurazione degli angoli e le unità di tempo va oltre la semplice considerazione che in entrambi i casi si utilizzi il minuto. Tutti gli orologi non digitali mettono in rapporto una posizione angolare di un cerchio a un punto di un infinito flusso temporale. Le lancette dell’orologio compiono movimenti rotatori in qualche modo analoghi a quelli realizzati dai corpi celesti e dalla Terra. L’orologio è, quindi, una specie di cielo riprodotto.
Uno dei più antichi dispositivi per misurare il tempo fu l’orologio solare fisso. Molto presto gli uomini dovettero accorgersi che l’ombra proiettata da un palo verticale indicava una direzione diversa nelle diverse ore del giorno. Non è grande il passo dal segnare l'ombra di qualche palo od oggetto naturale, alla costruzione di una lastra verticale od orizzontale per proiettare un'ombra di sufficiente lunghezza.
Prima dell’era moderna, quasi tutti i sistemi per dividere il giorno in ore, o in altre piccole unità di tempo (ottenute sempre dividendo per 60), consentivano alla loro durata di variare secondo la durata della notte e del giorno nelle diverse stagioni dell’anno. La parola “orologio” deriva del resto da due termini greci: hour che significa “stagione”, e logos che significa “discorso”, quindi l’orologio sarebbe un “discorso sulla stagione” con riferimento al fatto che la durata degli intervalli di tempo segnati da questi strumenti originariamente era diversa nelle diverse stagioni.
I più antichi strumenti per misurare il tempo senza basarsi su fenomeni astronomici si limitavano a indicare il trascorrere di periodi fissati arbitrariamente come, per esempio, la clessidra.
L'invenzione della clessidra svincolò il computo del tempo dalla diretta e continua osservazione del cielo, ma consentì anche una sua diversa valutazione. Gli orologi solari e stellari indicavano infatti un “preciso istante”, ovvero il momento in cui un determinato evento si verificava. Le clessidre, invece, attraverso il lento svuotamento di un recipiente, mostravano con chiarezza gli “intervalli di tempo”, ossia misuravano la durata di un determinato evento o fenomeno.
Gli uomini, in diverse parti del mondo e per moltissimo tempo, misurarono il tempo imitandone essenzialmente lo scorrere attraverso il flusso, oltre che dell’acqua, della sabbia, della porcellana in polvere e così via, ma nessuno riuscì ad escogitare un modo pratico di misurare lunghi periodi fino all’avvento dell’orologio meccanico. Non è un caso quindi, pensando al podismo, che nell’antichità, e pensiamo alle Olimpiadi greche innanzi tutto, non esisteva il concetto di record: ogni gara faceva storia a sé, e contava solo vincere, magari il più alto numero di volte possibile!
Non è ben conosciuto dove venne costruito il primo prototipo dei nostri orologi meccanici, né chi ne fu l’autore. Ciò avvenne però, secondo molti studiosi, probabilmente tra il 1270 e il 1280, come sviluppo dello svegliatore monastico, che era l’orologio con cui erano scandite le fasi della giornata dei monaci medievali. Era il sistema che informava delle sette “ore canoniche”: mattutino, prima, terza, sesta, nona (da cui l’inglese noon), vespri e compieta, che indicavano quando recitare determinate preghiere. Questo strumento generalmente non aveva una indicazione dell’ora, ma suonava ad ore prestabilite.
L’orologio meccanico era uno strumento complicato e ingombrante che richiedeva il lavoro sincronizzato di molte componenti. Verso la fine del 1500 fu introdotta l’innovazione di sostituire con una molla il peso utilizzato per garantire il movimento, e con questo si poterono costruire orologi di dimensioni contenute e anche di tipo tascabile.
Si racconta che Galileo, misurando nella cattedrale di Pisa con il battito del suo polso l'oscillazione di una lampada, riuscì nel 1583 a scoprire la legge fondamentale del pendolo (descritta poi nella seconda giornata del Dialogo sui massimi sistemi del 1632), secondo la quale il periodo è indipendente dall'ampiezza delle oscillazioni. Il pendolo sarebbe quindi un orologio perfetto, e Galileo espresse l’idea di usarlo come misuratore del tempo già in una lettera scritta al governatore degli Stati Generali d’Olanda nel 1637, ma non riuscì mai nell’intento.
Se l’idea di applicare il pendolo agli orologi per misurare il tempo fu quindi di Galileo, spettò a Christian Huygens il primato di realizzare i primi esemplari di tali orologi servendosi del lavoro di rinomati orologiai dell’Aja. Huygens, che conosceva il progetto di Galileo (il disegno fu rinvenuto tra le sue carte), realizzò il primo orologio a pendolo nel 1673.
Gli orologi costruiti da Huygens furono i primi ad avere le lancette dei minuti ed a consentire misure di tempo con incertezze dell’ordine di 10 secondi al giorno.
Da allora gli artigiani europei iniziarono a progettare orologi sempre più precisi.Uno strumento detto cronografo fu brevettato però dallo svizzero Adolphe Nicole solo nel 1862. I cronografi furono usati dapprima per tener conto dei tempi nelle corse dei cavalli, e queste operazioni diventarono sempre più precise.
In quel periodo abbiamo così evidenza delle prime gare di atletica (in Inghilterra e Stati Uniti) in cui vengono registrati i tempi impiegati dai partecipanti. Nasce così anche il concetto di record, assolutamente sconosciuto precedentemente. Tra i grandi corridori greci antichi di anni diversi, per esempio, non abbiamo infatti modo di stabilire il valore relativo: Leonidas, Coroebus, Astylos, Achille etc sono per noi valutabili solo in base alle vittorie riportate. I Greci non misuravano i tempi delle corse podistiche. Stimavano le velocità confrontandole con quelle degli animali: il concorrente era stato veloce tanto da catturare una lepre, oppure da battere un cavallo su distanze più lunghe? Nella Grecia antica esistevano clessidre e meridiane, ma non avevano una precisione tale da essere usate nelle gare di corsa. Per i Greci, i tempi e le distanze (così importanti per noi) non rivestivano molta importanza: l’importante era vincere, e in più gare possibili.
Secondo Plinio sarebbero stati i Romani primi a registrare per primi i tempi nelle corse sulle lunghe distanze, ma non ci sono pervenute altre informazioni o dati al riguardo. Nell’antica Roma si fecero enormi progressi nello sviluppo degli orologi, in particolare quelli solari e ad acqua, dei quali i Romani riuscirono a ridurre anche le dimensioni. Nel I secolo d.C. apparvero modelli come la “solaria”, grandi non più di 3,8 cm, che venivano usati come i nostri orologi da taschino. Gli orologi ad acqua erano più precisi e non dipendevano dalla presenza del sole, anche se, ovviamente la loro precisione era del tutto relativa. Si è scritto di un uomo che riuscì a correre per 260 km nel Circo Massimo, la grande arena di Roma che poteva ospitare fino a 250.000 spettatori, mentre un ragazzino di otto anni per divertimento avrebbe percorso tra 112 e i 120 km!
I primi risultati cronometrici davvero ufficiali di gare podistiche arrivano comunque tra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70 del XIX secolo, e si riferiscono a gare di velocità, anche se le piste erano molto rare e le corse si tenevano spesso su percorsi ippici o su strada. Tra questi risultati quello dell’americano George Seward nelle 100 yards (91.44 metri): 9 ¼ secondi. E quello dell’inglese Harry Hutchens, 300 yards in 30 secondi netti. Questi tempi sembrano decisamente buoni, ma sulla loro affidabilità è giusto nutrire qualche dubbio. La partenza, per esempio, avveniva secondo la regola del “mutual consent” (mutuo consenso) e si capisce quindi che ogni corridore cercasse stratagemmi per avvantaggiarsi, tali da rendere poi difficile stabilire l’esatto istante dell’inizio gara. Gli orologi, da parte loro, potevano segnare i mezzi, quarti e perfino quinti di secondo. Più in là anche i decimi.
Le 100 yards furono per lungo tempo la distanza-regina dello sprint. Scendere sotto i 10 secondi su questa distanza fu il primo sogno dell’atleta moderno.
Poiché le distanze inglesi facevano perno sul miglio, era logico che per lo sprint “prolungato” si adottassero anche le 220 yards (m. 201.17), ottava parte del miglio, anche se avevano un certo corso ovviamente anche le 200 yards. Le 220 o “furlong” si corsero per molti anni su percorso in linea retta.
Il primo record ufficiale delle 220 in linea retta fu un 22.0 ottenuto da William Page Phillips nel 1878 a Londra.
I 400 metri sono derivati dalle 440 yards (402.34 metri), che costituiscono la quarta parte del miglio inglese. Fu appunto questa la distanza scelta dagli inglesi come lunghezza-standard delle loro piste di atletica. I 400 metri – ovvia “traduzione” metrica delle 440 yards – sono stati presi come noto come misura-standard delle piste olimpiche (più o meno dal 1928 in poi).
Per quanto riguarda il mezzofondo uno dei primi risultati storici fu quello che ruppe il muro dei 2 minuti sul mezzo miglio (880 yards): 1’58’’, dell’inglese Henry Reed.
Il miglio ovviamente assunse presto il ruolo di prova-regina della corsa. Si racconta che nel 1825 un tale James Metcalf vinse una gara in 4:30, assicurandosi un premio di mille ghinee. La prima registrazione che ci è ufficialmente pervenuta è quella di un 4’17’’ ¼ di William Lang.
Venendo infine al fondo, e segnatamente alla maratona, ricordo che la prima maratona ufficiale dell’era moderna si svolse il 10 marzo 1896 (sulla distanza di 40 chilometri) come prova generale della gara olimpica (sempre di 40 chilometri), svoltasi il 10 aprile dello stesso anno. La prima fu vinta dal greco Charilaos Vasilacos in 3h18’20’’, quella olimpica dal connazionale Spiridon Louis in 2h58’50’’.
Nell’articolo sulla misura delle distanze ricordavo come la definizione originaria di metro risalga ad una risoluzione effettuata dell'Assemblea Nazionale francese alla fine del XVIII secolo, in piena Rivoluzione. Solo nel 1832 venne poi ufficialmente adottata l’unità di tempo, il secondo, proprio in base alla vecchia definizione medioevale: il secondo è la frazione 1/86400 della durata del giorno solare medio. (Determinato l'istante preciso in cui una stella passa su un meridiano, si calcola il tempo che intercede tra questo e un nuovo passaggio; questo intervallo di tempo dà la durata della rotazione, che è di 23h 56m circa. Questa misura è chiamata giorno sidereo, da sidus, siderus = stella. Se invece noi osserviamo due passaggi successivi del Sole al meridiano del luogo, l'intervallo fra essi è in media di 24 ore circa e viene detto giorno solare; il giorno solare medio risulta dalla durata media di tutti i giorni solari).
La necessità di disporre di campioni invariabili e riproducibili spinse dapprima, quindi, gli studiosi di metrologia a ricercare tra le caratteristiche del nostro pianeta qualcosa che si prestasse allo scopo. Successivamente, essendosi scoperte variazioni di entità non trascurabile nelle caratteristiche di forma e di moto della terra, fu la fisica atomica a suggerire per alcune delle grandezze fondamentali l'adozione di nuovi campioni (Ovviamente in tutte le ridefinizioni del secondo e del metro si è cercato, con una scelta opportuna delle costanti, di mantenerne i valori il più vicino possibile a quelli fissati originariamente).
Già nel 1870 James Clerk Maxwell aveva sottolineato che le lunghezze d'onda, i periodi di vibrazione e le masse dei sistemi atomici danno ben altre garanzie di invarianza e disponibilità delle analoghe grandezze relative a sistemi macroscopici.
Durante la Seconda Guerra Mondiale lo sviluppo di circuiti a microonde ebbe grande impulso e ciò aumentò le possibilità di controllo sulle oscillazioni ad alta frequenza. Tali oscillazioni, provocate dall’uomo e identiche a quelle delle onde radio corte, furono sintonizzate in modo da corrispondere a specifici cambiamenti di energia nelle molecole e negli atomi. Questi cambiamenti furono accuratamente misurati nei termini delle oscillazioni elettromagnetiche che emettevano o assorbivano. Ogni oscillazione, che può essere mantenuta ad una frequenza uniforme, può servire come base per un orologio. Questo è vero sia nel caso in cui l’oscillazione sia quella di un pendolo o quella di una molecola che emette energia alla frequenza determinata dalla sua struttura.
In condizioni particolari, infatti, è possibile inondare di energia una molecola, che così si mette a vibrare, un po' come una corda di chitarra vibra dopo averla eccitata. E mentre gli atomi oscillano, l'energia acquistata in precedenza viene restituita sotto forma di onda elettromagnetica, la cui frequenza è pari al numero di oscillazioni "contenute" in un “secondo”. Il primo orologio atomico venne realizzato nel 1949 dal fisico americano Harold Lyons e sfruttava la vibrazioni delle molecole di ammoniaca. Investita da un “fascio” di microonde, la molecola di ammoniaca ne assorbe l'energia, che viene poi restituita non appena la molecola inizia a vibrare.
Nei successivi e più efficaci apparecchi realizzati per misurare il tempo furono utilizzati fasci di atomi al posto di molecole.
Un orologio moderno al cesio, accuratamente costruito e con un’adeguata manutenzione, può misurare il tempo con una stabilità tale che se dovesse essere utilizzato per un intero secolo, la deviazione rispetto all’ora precisa non sarebbe più grande di 3 millisecondi. I campioni di cesio più precisi si trovano nei laboratori nazionali; le loro incertezze sono stimate in alcune parti su 10(15).
Nel 1967 la XIII Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure sostituì con l’atomo di cesio 133 i corpi celesti che precedentemente erano stati utilizzati come base dell’unità di tempo.
La definizione formulata in quella sede fu: il secondo equivale alla durata di 9.192.631.770 periodi (o cicli) della radiazione che corrisponde alla transizione tra due livelli iperfini dell’atomo di cesio 133. Per quanto questa definizione possa sembrare complicata, ha il vantaggio di essere costante nel tempo e riproducibile nei laboratori di tutto il mondo (e in principio dell'universo!).
Per approfondimenti:
Agnoli P., Il senso della misura. La codifica della realtà tra filosofia, scienza ed esistenza umana, Roma, 2004 Gotaas T., Storia della corsa, Bologna, 2011 Harris H. A., Sports in Greece and Rome, London, 1972 Mella F. A., La misura del tempo nel tempo. Dall’obelisco al cesio, Milano, 1990 Quercetani R. L., Atletica – Storia dell’Atletica Moderna dalle origini ad oggi, Milano, 1990
altri racconti di Paolo Agnoli: "Sulla misura di una corsa"
Paolo Agnoli
Paolo Agnoli è dottore, con lode, in fisica e in filosofia. Dopo una prima esperienza di ricerca in fisica nucleare, ha passato molti anni della sua vita lavorativa nella ricerca applicata, operando in differenti laboratori e settori di ricerca e sviluppo in Europa e negli Stati Uniti. In questo contesto ha partecipato anche a diversi gruppi di studio internazionali che avevano lo scopo di analizzare, discutere e proporre miglioramenti ai protocolli di misura in ambito di differenti settori tecnologici (elettronica, informatica e telecomunicazioni). E’ impegnato attualmente nell’alta consulenza e formazione manageriale (www.pangeaformazione.it). Pratica la corsa 4-5 volte alla settimana ed ha partecipato a molte gare podistiche su strada tra cui, spesso, la maratona di Roma e la mezza maratona Roma-Ostia.Allegati
Commenti
Per procedere è necessaria l'autenticazione. Sei pregato di effettuare il login o di registrarti per un nuovo account.