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12/09/2012

Il racconto di Marcello - Diverso e uguale

RUNNERS&WRITERS
Anno 1 - numero 37
Mercoledì 12 settembre 2012

Diverso e uguale

Adelmo Pavesi è a bordo campo, nella sua caratteristica posizione: un ginocchio sul parquet, un gomito poggiato sull’altra coscia, con la mano stretta a pugno sotto il mento. Guarda i suoi giocatori e, come gli è sempre successo, le immagini della partita odierna ( il Presente su cui agire con tutte le sue forze e capacità) si mischiano improvvisamente ad altre immagini ed emozioni lontane.
Era un caldissimo mese di giugno, del millenovecentonovanta. Partita di spareggio in campo neutro, a Napoli: la sua squadra, il Lucca, e il Reggio Emilia, avevano terminato il campionato di A2 al quartultimo posto a pari merito ed ora si giocavano la salvezza in quaranta minuti infuocati.
Avevano preparato l’incontro accuratamente per tutta la settimana, ma Adelmo sapeva che non era quello il punto più importante. Ogni giocatore avrebbe dovuto trovare la concentrazione massima, spazzare via qualsiasi egoismo, entrare in una trance agonistico che gli avrebbe consentito di fare i consueti gesti con naturalezza, vincendo l’enorme tensione che lo avrebbe attanagliato prima della gara. Il loro capocannoniere, l’ala americana di colore George Bentley, sei anni nella NBA, aveva la solita sicurezza e arroganza nello sguardo. Ad Adelmo non era mai piaciuto, ma i dirigenti glielo avevano imposto e il nome era troppo prestigioso per opporsi. Il fatto è che George interpretava la pallacanestro in un modo troppo individualista. Accentrando eccessivamente il gioco su di sè, spesso faceva diventare prevedibili le azioni della squadra, facilitando il compito della difesa e deprimendo le capacità tecniche dei compagni. Un terzo dei loro palloni venivano finalizzati dalla potente ala tiratrice. Il suo tiro era morbido e mortifero, scoccato da un’altezza notevole, sempre in sospensione, da sopra le mani dei difensori, che ben poco potevano fare per impedirgli di concludere a proprio piacimento.
La partita era cominciata con un gioco prevedibilmente nervoso da entrambe le parti. Bentley e il play maker De Novo avevano poi trovato una discreta precisione nelle conclusioni e anche il pivot slavo Bicanic aveva segnato diversi canestri da sotto e trasformato i tiri liberi, quando aveva subìto dei falli. Il punteggio a metà gara era decisamente basso: 38-35 per Lucca. Gli spalti erano stracolmi di tifosi provenienti da entrambe le città e non solo. Le opposte tifoserie si erano beccate più volte con cori e sfottò, ma fino a quel punto non si erano avuti incidenti. Spesso il chiasso era talmente assordante che per i giocatori era impossibile riuscire a sentire le sue indicazioni. Nello spogliatoio ha quindi ribadito i concetti su cui avevano impostato l’incontro, con calma, concentrazione assoluta, ma in un particolare momento, ha visto una strana luce negli occhi di George. Gli sembrava di potergli leggere dentro e ciò che vedeva non conteneva nulla di buono: non mi interessa ciò che dice quest’idiota bianco italiano, non mi frega nulla se vinceremo questa partita e Lucca resterà in serie A o se la perderemo e scenderà in B: ho già deciso che domani tornerò in America, il mio agente ha dei buoni contatti per la prossima stagione e potrò giocare di nuovo nella NBA, dove un campione come me merita di stare, piuttosto che in mezzo a questi sfigati.
Era stato solo un istante, ma Adelmo era sicuro, pur non sapendo come, di aver letto nel pensiero di George Bentley. Il suo corpo e la sua classe erano lì, ma nel suo intimo non partecipava a quella battaglia campale, per la città, per la società, per i tifosi, per la carriera e la vita oltre che sue, dei suoi compagni e del suo allenatore. C’era freddo cinismo in lui, come sempre, un egoismo cattivo, da cui non può scaturire nulla che abbia valore.
Passato quello strano momento e incoraggiati i ragazzi, avevano fatto il loro urlo collettivo, in circolo, tutti con le mani poggiate le une sulle altre. Erano usciti dallo spogliatoio, passati sotto il tunnel di plexiglas e rientrati in campo, tra le urla assordanti dei tifosi.
Ora è diverso e uguale. Sono rientrati in campo per il secondo tempo della finale regionale del campionato misto, in cui ogni squadra si compone di due terzi di giocatori con handicap e un terzo di normo-dotati. Anche oggi il punteggio è decisamente basso, 24 a 20 per loro, l’Oratoriana Bologna, contro la PGS Modena. Ma in questo campionato, naturalmente, si segnano sempre pochi punti.
Osserva i suoi giocatori schierarsi intorno al cerchio del centro campo. Cerca la concentrazione totale, quella in grado di fargli vedere e capire fino in fondo quello che c’è da fare, cosa dire e cosa dare ai suoi ragazzi, come impostare il gioco, assecondando il loro umore, la loro energia, il momento buono o negativo di questo o di quell’altro.
Il suo sguardo si posa su Gianni, loro guardia tiratrice, sindrome di Down, carico di adrenalina. Continua a parlare con i compagni, incoraggiare tutti, non vuole perdere la sua partita più importante.
Adelmo ricorda la prima volta che lo ha visto, tre anni fa. La madre, una signora di origine abruzzese dal viso gradevole ma con le mani completamente rovinate, rosse e gonfie, glielo ha presentato. Gianni non lo ha guardato negli occhi, gli ha steso la mano per dovere, ma aveva un atteggiamento larvatamente ostile. Sua madre in precedenza gli aveva raccontato che era molto chiuso. A scuola stava sempre per i fatti suoi e ogni tanto la mandavano a chiamare, perchè le poche volte che il mondo dei “normali” faceva breccia nel suo, reagiva con violenza: urlava, lanciava oggetti, tirava pugni a chi gli risultava antipatico. Non voleva mai uscire, ma ogni tanto scappava di casa. In famiglia erano terrorizzati dal fatto che potesse farlo, e la vecchia nonna, che doveva sorvegliarlo, non ce la faceva più a stargli dietro. Diverse volte era stata la polizia a riportarlo a casa, dopo uno o più giorni di assenza. Ogni volta era diventato ancora più cupo, più rabbioso e più solo.
Lo vede parlare con Alfio, volontario di diciotto anni , studente del Liceo Classico e play-maker della squadra. Alfio annuisce, gli dà una pacca sul sedere. E l’arbitro lancia la palla per la contesa. La sfida riprende. La palla è nelle loro mani.
Alcuni giocatori corrono, altri quasi camminano, ma non importa, si fanno trascinare dall’energia del gruppo e arrivano di là anche loro. I canestri sono rari, e per lo più segnati dai normo-dotati , ma ogni tanto un down, un autistico, un ritardato, prende un’iniziativa, e a volte segna, con gioia incontenibile sua e dei tifosi sugli spalti, per lo più genitori e parenti emozionatissimi: una cinquantina di persone in tutto.
Il portatore di handicap che prende più iniziative per la loro squadra è proprio Gianni, perchè con il tempo ha imparato a fare bene il terzo tempo e il palleggio arresto e tiro. A volte lo esegue in modo praticamente perfetto, meglio di molti giocatori normali. Eccolo che riceve un pallone sulla fascia dal pivot Claudio Risi, autistico. Comincia a palleggiare guardando la palla. Adelmo gli ha detto mille volte di non farlo così a lungo, perchè la difesa si concentra su di lui e in quel modo nemmeno la vede arrivare. Gianni sembra improvvisamente ricordarsi della sua raccomandazione. Solleva la testa e vede il suo difensore diretto che sta provando a rubargli palla. Cambia mano e direzione, dirigendosi verso la linea di fondo. Si gira faccia al canestro, si arresta e, con il suo tipico mezzo saltello, tira.
Il pallone si infila nella retina e lui torna verso la propria metà campo, urlando “Alèèèèè! Forzaaaaa!”. Un paio di compagni gli danno uno schiaffetto sulla mano, per congratularsi. Non lo ha mai visto così gasato e stenta a credere che si tratti dello stesso ragazzo di tre anni prima, furioso con il mondo e con la vita, che pareva potesse letteralmente implodere di rabbia, incapace di accettare la sfortuna che il destino gli ha insinuato, per capriccio, nel corpo e nella mente. Per i primi due mesi non ha parlato con nessuno. Solo quando il gioco ha cominciato ad appassionarlo, pian piano è uscito dal guscio. Mostrava un particolare talento nell’apprendere gli schemi motori della pallacanestro. Ci metteva tutta l’energia che aveva dentro, eppure riusciva a non irrigidirsi, a conservare la scioltezza necessaria perchè i gesti fossero puliti, il tocco del tiro abbastanza morbido. E i compagni apprezzavano le sua capacità, la sua determinazione. Gli passavano la palla in allenamento, tutte le volte che bisognava assolutamente segnare in qualche gara a squadre, quando la mano rischiava di tremare. E lui non esitava, aveva coraggio da vendere. Era tutto lì, in quel pallone che doveva tirare a canestro, come se fosse l’unica cosa che gli restasse da fare. I compagni, sia i “diversamente abili” che gli altri, lo ammiravano sinceramente, e lui pian piano, aveva cominciato ad essere loro grato per questa limpidezza. Per la prima volta avvertiva la presenza nel mondo di uno dei suoi più meravigliosi meccanismi, troppo spesso nascosto dalla meschinità e dall’egoismo superficiale della massa degli uomini e delle donne, soprattutto normo-dotati: ciò che spendi di te senza riserve, ciò che doni disinteressatamente, ti torna indietro moltiplicato, seppure sotto forma di un’energia intangibile, un’euforia, un amore senza misura, che niente e nessuno potrà più toglierti.
Quell’altra partita, verso la metà del secondo tempo, s‘era cominciata a mettere abbastanza male. Il Reggio Emilia aveva approfittato di alcuni tiri affrettati e forzati e si era disteso compatto in contropiede più volte, portandosi in vantaggio di dodici punti al trentesimo minuto, nell’estasi fragorosa delle proprie migliaia di tifosi al seguito. I giocatori di Adelmo sembravano imbambolati, tramortiti. Lo spettro della sconfitta e della retrocessione li sfiorava e pareva paralizzarli, in quei minuti in cui tutto il lavoro di anni poteva crollargli addosso, come un castello di carte mal costruito.
Adelmo ha chiamato un minuto di sospensione. Il quintetto delle riserve si è alzato dalla panchina e ha lasciato il posto a quello che giungeva dal campo. I giocatori, stremati e avviliti dagli ultimi sviluppi, si sono seduti.
Adelmo prima di parlare ha scrutato i loro sguardi. Il play-maker De Novo era arrabbiato, aveva ancora voglia di lottare. Il pivot slavo, Goran Bicanic, anche. Non era molto bravo tecnicamente, ma grintoso e alto quasi due metri e dieci, poteva sempre giocarsi le sue carte vicino a canestro. L’ala Zulli e l’altro pivot Ramelli parevano spenti, rassegnati alla sconfitta incombente. Bentley era su un altro pianeta. Masticava chewing-gum, come sempre, e faceva finta di ascoltare.
“Ragazzi che volete fare? Volete mollare proprio ora?” ha iniziato Adelmo, “ Non dovete preoccuparvi, solo dare il massimo. Cos’è il massimo? Ognuno di voi lo sa, dentro di sè. Cercate di ritrovare l’umiltà, la pazienza, la forza per dare il massimo. Non vi chiedo di più. Nessuno può chiedervi di più. Fate ogni gesto con convinzione e con tutto l’impegno possibile, come in allenamento, quando dopo una sconfitta tornate pieni di rabbia, di voglia di rivincita. Non voglio da voi nulla più di questo, ma neanche nulla di meno: non vi chiedo di vincere, si vedrà solo alla fine della partita chi lo avrà meritato, ma date il massimo di voi stessi e comunque lasceremo questo palazzetto a testa alta. Posso contarci? Siete pronti a buttare sul campo, ora, tutto ciò che di meglio potete offrire?”
“Sì dai! Facciamo come dice Adelmo!” Ha urlato De Novo, e anche gli altri si sono alzati dalla panchina, con lo sguardo vivo e bellissimo di guerrieri che combattano per difendere quanto hanno di più caro al mondo. Hanno messo le mani una sull’altra e tutte pesavano e fremevano sull’avambraccio di Adelmo, che sentiva tutto di nuovo, la forza eroica per lottare fino alla morte, se fosse stato necessario. Ha avvertito pure, ancora una volta, la distanza di George, mentre poggiava distrattamente il suo braccio muscoloso sopra tutti gli altri, solo all’ultimo istante.
Appena rientrati sul parquet, i suoi ragazzi hanno cominciato a difendere con grande combattività, impedendo quasi sempre agli avversari di segnare, nei primi quattro minuti di gioco. In attacco, Bentley ha piazzato una bomba da tre punti e De Novo ha cominciato a cercare Bicanic sotto canestro. Il pivot slavo si muoveva come un indemoniato dentro l’area, in modo pendolare. Ne entrava e usciva con una velocità insolita per lui. De Novo accennava una penetrazione, superando il suo uomo in velocità e costringendo il difensore di Goran a coprire su di lui. A quel punto lanciava preziosi assist, che il compagno doveva solo trasformare.
Il divario si è rapidamente ridotto a tre punti. Ma l’inerzia dell’incontro era ora favorevole al Lucca, i cui giocatori si parlavano e incoraggiavano continuamente. Adelmo era proprio felice in quei momenti. Avvertiva la potenza della reazione che le sue parole avevano innescato. Quei ragazzi, che adesso apparivano trasformati e lottavano come leoni, portavano dentro i loro gesti coraggiosi e senza remore una parte di lui, la più preziosa. E lui sentiva di avere parte di loro dentro di sè, del timido Goran che cercava di farsi servire in area, muovendosi come un veloce stambecco; del generoso e granitico Francesco De Novo, amatissimo dalle tifose, che aveva preso in mano la situazione e gestiva la squadra con autorità; dell’incostante Zulli, che aveva un gran tiro ed era un buon difensore, ma aveva sempre alternato sprazzi di classe a lunghe pause di abulia e scoraggiamento, se le cose gli andavano male; del giovanissimo pivot Ramelli, calabrese di due metri e cinque, che lui stesso, nell’arco di quella stagione, aveva lanciato in quintetto base per la prima volta. Ramelli aveva un radioso futuro davanti a sè, era fluido nei movimenti, nonostante l’altezza, e possedeva ottimi fondamentali, compreso un buon tiro da tre, quattro metri. Retrocedere per lui poteva significare un brusco arresto della propria ascesa, se nessuna squadra di A lo avesse acquistato.
Intanto, sul parquet dell’Oratoriana Bologna, il loro miglior giocatore, l’ala-pivot Carlo Bulgarelli, in un contrasto sotto canestro, ha preso una gomitata dal grosso pivot avversario e si è accasciato al suolo. Adelmo e il massaggiatore si precipitano in campo e gli chiedono come va, mentre Gianni si avventa contro l’avversario che ha sferrato la gomitata, forse volontariamente. Adelmo lo vede scagliarsi contro quel ragazzone autistico di quasi due metri e letteralmente lo placca, un attimo prima che i due entrino a contatto.
Lo tiene stretto e riesce con fatica ad evitare che si divincoli.
“Calmati Gianni! Cosa pensi di risolvere, così?”
“E’ un bastardo! L’ha fatto apposta!” gli ringhia in faccia.
Adelmo lo abbraccia stretto, sente che sta per perdere il controllo, per tornare il Gianni furibondo di un tempo.
“E tu vendicati sul campo. Usa la testa e rendi positiva la tua collera. Gioca meglio di lui, così noi torneremo a casa campioni regionali e quello stronzo dovrà abbassare la cresta”.
Gli occhi verdi e allungati di Gianni, tipici della sua disfunzione, lo guardano con fiducia, come quelli di un bambino troppo cresciuto che, per un attimo, decida, per amore di un genitore, di smettere di fare i capricci.
Non dice nulla. Lo abbraccia anche lui, finendo di inzupparlo di sudore, e torna verso la panchina. L’arbitro infatti ha sospeso il gioco, perchè il loro medico sociale sta cercando, con un emostatico, di fermare il sangue che fuoriesce dal sopracciglio di Carlo. Purtroppo il taglio è profondo e Adelmo è obbligato a sostituirlo con Walter, un lunghissimo boy-scout diciassettenne, che ha pochissima dimestichezza con il canestro.
Il gioco riprende con tanto agonismo e pochi canestri. Si entra nell’ultimo quarto di gioco con le squadre ancora sul 36 pari. Si segna quasi soltanto su tiri liberi, quando qualcuno subisce fallo in fase di tiro. Non si vede un gesto elegante, un tiro da tre punti, un salto all’altezza del ferro, come in quella partita di quindici anni fa.
A tre minuti dalla fine si era tornati anche lì in perfetta parità, 65 a 65. Il Reggio Emilia aveva subìto il ritorno dei ragazzi di Adelmo. Si era scomposto. Il loro allenatore, infuriato, aveva chiamato due minuti di sospensione quasi consecutivi. Le sue urla si sentivano dall’altra panchina, nonostante il battito incessante dei tamburi e lo stridere delle trombe d’automobile sugli spalti gremiti.
La vittoria era ad un passo. Adelmo, durante quella sospensione ha detto solo questo: “Grazie ragazzi, bravi. State dando tutto, come vi avevo chiesto. Non ho niente da dirvi se non di continuare così, fino all’ultimo istante”.
Appena rientrati sul parquet, De Novo ha segnato un ottimo canestro con un arresto e tiro dalla lunetta, dopo aver ubriacato, per l’ennesima volta, il suo avversario.
Il Reggio Emilia ha risposto con due tiri liberi del pivot americano Gray. Poi ci sono stati due liberi di Bicanic, che aveva sfruttato un assist di De Novo; quindi un errore da fuori degli avversari e un tiro forzato di Bentley ha causato un mezzo contropiede degli emiliani. La difesa non era ben schierata e avrebbero potuto gettarsi in area, cercando Gray, che arrivava come rimorchio. Ma in quei momenti, c’è chi sente di poter osare qualcosa di più di quanto sia semplicemente ragionevole fare, così il playmaker avversario, un Reggiano purosangue di nome Fantini, è arrivato in velocità e, senza nessuna esitazione, ha tirato una bomba da tre punti che poteva costare alla sua squadra l’intera stagione. Il pallone invece si è infilato nella retìna, quasi fosse telecomandato, senza nemmeno sfiorare l’anello.
Il punteggio era adesso: Reggio Emilia 70 – Lucca 69. Il cronometro segnava diciannove secondi dalla fine, diciotto, diciassette....
De Novo ha subito cercato Bentley, che era marcato strettissimo, faccia a faccia dal suo difensore, affinchè non ricevesse quell’ultimo, preziosissimo pallone. Allora ha cercato Bicanic, riuscendo a trovarlo in lunetta. Goran ha guardato il canestro, ha osservato Gray, il fortissimo pivot avversario che lo fronteggiava con grinta. Ha forse pensato un attimo di tirare, poi ha restituito la palla al play. Bisognava concludere a fil di sirena, per non lasciare tempo sufficiente per un’azione agli avversari.
Bicanic ha effettuato un blocco sul difensore di Bentley, riuscendo a liberare George, che finalmente ha ricevuto palla sulla fascia laterale. Il grande campione NBA ha guardato il tabellone, mancavano cinque secondi, quattro, ed era proprio il momento di concludere, invece ha fatto un paio di palleggi e ha passato il pallone a Zulli oltre la linea dei tre punti. Sorpreso di avere la palla tra le mani, l’ala lucchese ha avuto appena il tempo di piegarsi e lasciare andare un tiro.
La parabola era troppo corta. Si è spenta sull’esterno del ferro.
La sirena ha urlato la fine e centinaia di tifosi reggiani hanno invaso festosamente il campo. Pazzi di gioia, cercavano i loro beniamini da abbracciare, da portare in trionfo.
Ad Adelmo, prevedibilmente, in seguito alla retrocessione, non è stato rinnovato il contratto. Dopo un paio d’anni di inattività, ha cominciato ad allenare nelle giovanili di una squadra minore di Bologna. La moglie, una bella giocatrice che aveva conosciuto sui campi di basket, ha preferito rimanere nel giro, forse. Fatto sta che lo ha lasciato, per mettersi con un biondino dal fisico statuario, una guardia di Varese, entrata da poco nel giro della nazionale, che aveva dieci anni meno di lui, sette meno di lei.
Il fischio dell’arbitro lo riporta alla realtà, al Presente, che è d’obbligo onorare in modo assoluto, senza troppi teoremi che sfocino nel nulla, senza sterili distinguo tra situazioni diverse e uguali, condizioni e qualità di un miliardo di sfumature pensabili e impensabili.
L’arbitro indica il giocatore del PGS Modena che ha commesso il fallo. Il ragazzo protesta, dice che aveva preso il pallone , non la mano di Gianni che, dall’angolo, si era alzato per il tiro.
Adelmo si rende conto di essersi assentato con la mente per qualche minuto, perso pericolosamente nelle sue ferite più dolorose. Guarda il tabellone elettronico. Sono 47 a 46 per il Modena e mancano solo sette secondi alla fine.
Gianni è in lunetta e riceve la palla dall’arbitro. Sembra molto nervoso. Palleggia per diversi secondi sul posto, per darsi lo slancio. Forse indugia troppo. L’arbitro lo invita a sbrigarsi. Adelmo gli urla “Dai Gianni! Lo so che sei un grande!”
Gianni gonfia il petto in un profondo respiro, ferma finalmente il pallone sulla testa e lo lancia in aria con dolcezza, col tocco di un giocatore che ha trovato il coraggio di essere tutto sè stesso, niente di più, niente di meno.
Il pallone entra un po’ sporco, dopo aver sbatacchiato sul ferro. Parità.
Applausi...Silenzio...
“Ancora Gianni, non aver paura! Era quasi perfetto come tiro!”
Gianni prende la palla dall’arbitro. Stavolta dopo soltanto un paio di palleggi, effettua il secondo tiro, che termina morbidamente a canestro, increspando appena la retìna.
Nei sette secondi che mancano, i giocatori del Modena non riescono a segnare. La sirena pone fine alla finale regionale.
I compagni e i genitori dei ragazzi di Bologna invadono il campo. Tutti abbracciano Gianni, che emette sempre lo stesso urlo selvaggio “Alè! Abbiamo vinto!”. Le mamme lo baciano, tutti i compagni si congratulano con lui. Anche l’allenatore avversario va a stringergli la mano.
Adelmo si tiene in disparte per qualche secondo. Guarda la scena con soggezione, quasi con paura. Si rende conto di stare assistendo a qualcosa di eccezionalmente bello, il cui significato meriterebbe di essere spiegato a tutti, se fosse possibile con le parole. Poi sente lacrime di pura gioia spingere dal fondo dei suoi occhi e corre ad abbracciare Gianni, quell’eroe assoluto che ha l’onore di allenare.

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Marcello Nicodemo

Il presente racconto è stato finalista al Premio Teramo nel 2007.
Sono docente di lettere e scrivere è la mia più grande passione: ho pubblicato finora quattro romanzi ed un saggio.
Si possono trovare informazioni su di me e sui miei libri sul mio sito: http://www.marcellonicodemo.it, sulla mia pagina Facebook: Marcello Nicodemo - libri, oppure sulla pagina di video e interviste su youtube: http://www.youtube.com/user/MrMarcellink



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