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20/11/2019

Il racconto di Eleonora - Correre la Maratona di New York

RUNNERS&WRITERS
Anno 8 - numero 181
Mercoledì 20 novembre 2019

Correre la Maratona di New York

Quest’anno ho compiuto cinquant’anni. Sapendo che sarebbe stato drammatico doppiare tale boa, ho deciso di esorcizzare l’evento contrapponendogli qualcosa di straordinario. Da moltissimi anni avevo in progetto di associare questo compleanno così particolare alla Maratona di New York. Un anno fa ho cominciato ad organizzarmi. Forse non tutti sanno che partecipare alla manifestazione sportiva non è semplice come si potrebbe immaginare: New York è “la” maratona, sicché la richiesta, da tutto il mondo, è immensa. Per razionalizzare la distribuzione dei pettorali, l’organizzazione ha deciso di sorteggiarne una parte e di affidare tutti gli altri ad agenzie che coordinano il viaggio dei maratoneti. Poiché volevo andarci per forza, ho immediatamente accantonato l'idea di iscrivermi alla lotteria e ho prenotato attraverso Orlando Pizzolato e la sua struttura.
Al netto della burocrazia, cosa vuol dire prepararsi a correre una maratona?
Significa amare il dolore e la fatica ed essere molto determinati. Occorre intanto correre da un po’. Non è che uno si alzi dal divano o dalla scrivania e corra 42 km come ridere. Si tratta di una gara di resistenza, quindi il fisico va continuamente sollecitato, stressato, educato alla fatica. Chi, come me, corre "da amatore", normalmente non affronta carichi eccessivi: corre un'ora, un'ora e mezza, due quando ne ha il tempo e si sente bene. La maratona è particolarmente "demanding", sicché, per essere certi di arrivare a tagliare il traguardo, occorre, come si dice in gergo, razionalizzare i carichi. L'allenamento specifico, per un podista già avvezzo a correre, dura circa tre mesi, 12 settimane, nel corso delle quali si segue una tabella, che è meglio farsi preparare da un esperto. Io sono ricorsa all'esperienza di Orlando, che ha articolato l'allenamento su 4 giorni dei 7 di cui si compone la settimana, alternando carichi brevi e intensi a giornate con tanti km da percorrere a velocità moderata.
Ma consideriamo la parte della preparazione come già esaurita e andiamo al racconto della corsa. Va intanto precisato che non era la prima volta che andavo a New York, bensì la quarta e che per l'occasione ero insieme al mio compagno, Marxiano e a suo fratello Libero, con la moglie Isabella. Siamo un team affiatato, perché ci conosciamo tutti da 25/30 anni: averli accanto è stato di grande aiuto. Oltre a loro, anche Alessandro e Luisa, una coppia piacevolissima di appassionati runners, soci del mio stesso centro sportivo, la Gardanella. A loro posso dire di dovere tutta questa avventura, perché da nove anni partecipano alla maratona di New York e me ne hanno sempre parlato in termini così entusiastici da farmi venire l'idea di regalarmela per i cinquanta.
Sono arrivata a NY venerdì 1 novembre, festa di tutti i santi. Quest'anno la corsa si teneva domenica 3. Nella giornata di sabato, al mattino sono andata a ritirare il pettorale al Marathon Village, dove non mi sono potuta esimere da un selfie di fronte al muro che riporta in ordine alfabetico i nomi di tutti gli iscritti (una città intera, considerando che io avevo il pettorale 61739 e ancora molti numeri venivano dopo di me), quindi, dopo una passeggiatina di un'ora e mezza e il pranzo, sono andata alla conferenza di Pizzolato, Linus, Aldo Rock e altri personaggi, per entrare un po' nel clima della corsa. L'agitazione sabato era grandissima. Ero piena di paure: paradossalmente, non quella di non arrivare alla fine, una volta iniziato a correre, bensì di perdere il traghetto per Staten Island (da dove si parte), di non sentire la sveglia domenica mattina, di stare male, di non digerire o altro che potete immaginare.
Finalmente il sole è sorto sulla mattina di domenica 3. Accompagnata da Marxiano, mi sono recata al molo di Battery Park, nella punta meridionale dell'isola di Manhattan, per salire sul famigerato traghetto, che a questo punto ero certa non avrei perso... E già qui è incominciata la magia: era l'alba e il sole sorgeva illuminando a poco a poco i grattacieli di Wall Street e del Financial District e la Statua della Libertà. Solo per questo, era valsa la pena alzarsi così presto.
Sbarcata sull'isola di Staten Island, sono stata abbandonata dal mio partner, cui non era consentito procedere oltre, e mi sono recata a prendere l'autobus che mi avrebbe portato al compound da dove saremmo finalmente partiti, ai piedi del ponte di Verrazzano. Qui è iniziata un'interminabile attesa: fate conto che siamo saliti sul traghetto alle 7, il viaggio è durato una mezz'ora abbondante, prima tappa pipì all'imbarco di Staten Island con coda chilometrica, altra mezz'ora in pullman, passaggio dei controlli di sicurezza e accesso al compound, saranno state circa le 8:45/9. Il mio orario di partenza era fissato per le 11, con apertura del corral da cui sarei partita alle 10.30. Tutti i partecipanti, infatti, in base al tempo ipotetico nel quale dichiarano che faranno la corsa, vengono divisi in gruppi, denominati waves (onde), le cui partenze vengono distribuite nell'arco di un'ora e mezza, dalle 9.30, orario di inizio per gli atleti professionisti, alle 11, orario di partenza degli amatori più lenti, a loro volta suddivisi in tanti sottogruppi. Che fare? Orlando aveva detto, come è logico, di stare in piedi il meno possibile. Però faceva pure un gran freddo, nonostante il sole, la tuta di pile e il cappello. Ho deciso di avventurarmi comunque in un breve giro, per recuperare una tazza di caffè e qualcosa da mangiare, oltre ai biscotti che avevo con me. Con la mia ciambella d'ordinanza, recuperata da Dunkin' Donuts e una tazza di cafferaccio, mi sentivo l'attrice di una serie tv. Era bello ficcanasare qua e là, ascoltare i discorsi in tantissime lingue, inglese, francese, italiano, spagnolo, portoghese, tedesco, russo (forse), svedese (forse), danese (forse), olandese (forse)... ma alla fine mi sono data tregua, ho trovato uno spazio al sole, sul cemento, mi sono seduta per terra, ho mangiucchiato le mie cosette e ho atteso, anche un po' dormicchiando. Ultima tappa toilette, e via, finalmente al corral, che letteralmente significa "recinto per bestiame" e difatti un poco lo eravamo... Quando è stata la nostra ora, un gruppetto di ragazzi e ragazze in divisa dell'esercito USA ci ha scortato fino alla linea di partenza, ai piedi del ponte di Verrazzano che, vi assicuro, è parecchio alto, largo e lungo. Qui, prima musica a palla, poi silenzio e inno nazionale americano. Ebbene: mi sono commossa. Mai nella mia vita avrei immaginato di far scorrere le lacrime alle note dell'inno americano, per come la penso e per tanti motivi, ma è successo...
Al fatidico colpo di cannone che accompagna tutte le waves, anche noi siamo stati "liberati". Partenza lenta, lentissima, con le gambe ancora molto fredde e la prima salita, quella del ponte di Verrazzano, da percorrere. Tra noi runners, un silenzio di tomba. Nessuno parlava, nessuno diceva nulla, tutti concentrati nella speranza di rompere il fiato ed entrare in andatura il più presto possibile. Per fortuna, i ponti tanto salgono, altrettanto scendono e quindi, con una bella accelerazione, sono letteralmente piombata su Brooklyn. E qui è cominciato il delirio che non si è mai più interrotto (se non in un solo momento, come leggerete dopo): una folla enorme, urlante, ci ha accompagnato per tutto il percorso. Non ho mai visto tante persone fare il tifo e partecipare con così tanto entusiasmo a una manifestazione sportiva. Non è un tifo da stadio, beninteso, è qualcosa di molto simile a quanto accade nel ciclismo. Però, la variabile che rende unico tutto quanto è che si è a New York e non vi sono parole per definire la newyorchesità. C'è l'America e poi c'è New York, con i suoi quartieri, le sue facce, le sue strade, la sua inconfondibile skyline che nessuno mai potrà distruggere, per quanto ci si impegni, i suoi taxi, la sua luce, e, soprattutto, la sua gente. New York è la grande mela che racchiude tutto il mondo: a New York ci sono tutti i popoli, tutte le lingue, le religioni, le cucine, le filosofie, le mode, gli stili. E ci sono tutti i quartieri. Correndo la Maratona, se ne può vedere la maggior parte. A quell'urlo della folla, giù dal ponte, quando ancora non avevo compiuto il primo miglio, il mio cuore si è fermato. Mi sentivo come Keanu Reeves in "Matrix", quando, immobile, guarda i proiettili sfrecciargli intorno. Così ho preso una decisione: avrei cercato di dilatare la mia percezione del tempo più che potevo, perché quella gara durasse non solo le 4/5 ore previste, ma molto di più. Volevo guardarmi intorno il più possibile, dare il cinque a tutti i bambini che incontravo, a destra e a sinistra del percorso, respirare tutti gli odori, ma soprattutto, guardare, guardare, guardare e riempirmi gli occhi con quello che vedevo, cercando di fissare tutto nella memoria, per avere un archivio di ricordi al quale poter sempre tornare. E allora occhi spalancatevi e contemplate i grattacieli alla mia sinistra, le case più basse, gli angoli delle strade, i volti della gente, i sorrisi dei bambini, le bandiere; orecchie apritevi e ascoltate tutte le musiche, le bande, il rock; narici apritevi e respirate i profumi dei dolci, l'odore dei fritti, l'aroma sintetico delle caramelle, il tanfo delle fogne. E sotto le suole delle mie scarpe, un terreno irregolare, un asfalto consumato, qua e là rotto...
Ad un certo momento, è accaduto qualcosa di surreale: dal fragore che mi aveva accompagnato, sono piombata in un silenzio di tomba. Ho capito di essere approdata al quartiere degli ebrei ortodossi – mi avevano avvertito... – che non amano questa manifestazione e anzi cercano di attraversare la strada mentre passano i maratoneti, magari pure con qualche passeggino... Però anche qui il miracolo, un ragazzo, meglio un giovane padre, con i suoi capelli rossi a riccioli, la sua kippah e la redingote lunga fino ai piedi sorrideva, di un bellissimo sorriso, accanto alla moglie e al loro bambino sul passeggino. E ci salutava e incoraggiava. Come sempre, le tradizioni si possono cambiare standoci dentro, basta solo averne voglia.
E di nuovo rumore, entusiasmo e bellezza: è il Queens, signori, un altro meraviglioso quartiere dove penso che sarebbe tanto bello vivere... Eccoci su un altro ponticello, il Pulanski Bridge, che nulla è al confronto con il ponte di Queensborough, la bestia nera di questa maratona, perché cade circa a metà, comporta la canonica salitella e discesina e normalmente, diciamo così, si comincia a capire di essere a metà dell'opera, che non è tanto un conforto, dal momento che dopo due ore di corsa la fatica si fa parecchio sentire. Ma qui è intervenuta la mia buona sorte, perché ho visto tra la folla il mio Marxianino che mi sorrideva e il mio cuore si è aperto!!! Non è affatto facile riuscire a vedere amici e parenti alla Maratona di New York: la quantità di pubblico è enorme, così come tantissimi sono i corridori; bisogna anche guardare davanti, dove si mettono i piedi, sicché non è scontato riuscire a riconoscere tra la folla i propri supporters... Però è accaduto, e quell'incontro mi ha dato nuova carica per poter andare avanti, perché intanto eravamo al 16° miglio, oltre a regalarmi una gran bella foto...
L'ingresso a Manhattan è coinciso con una piccola crisi. Molti maratoneti ed esperti di maratone parlano del cosiddetto "muro", cioè di una sorta di blocco che interverrebbe quando la stanchezza si fa enorme, le gambe non reggono più ed è solo la testa a convincere il runner a procedere fino al traguardo. È una situazione che, nelle due maratone da me sino ad ora corse, non ho mai sperimentato. Semmai subentra una certa noia, una vocina, come quella di Magnum P.I., che sale dal profondo del cuore e dice "Ma perché non ti fermi e non ti dai tregua?". In questa maratona la vocina si è sentita dopo la curva ad angolo retto che dal Queensborough proietta sulla First Avenue. Perché? È molto semplice, perché ho visto davanti a me una strada lunghissima, la First appunto, che mi sarebbe toccato percorrere circa dalla 59a fino ad oltre la 120a, all'altro breve ponte che, da Manhattan, traghetta nel Bronx. La suddetta vocina ha detto: "Ommadonna, ma devo arrivare fin là?". Una seconda le ha risposto: "Non solo, perché poi devi pure tornare indietro circa fino a qua dove ci troviamo ora...". Il percorso, difatti, prevede che, percorsa la First, attraversato il ponte, compiuto un emiciclo nel Bronx, si torni di nuovo giù, verso il cuore di Manhattan, costeggiando Central Park, fino alla conclusione, che è, per l'appunto, nel cuore del parco stesso.
Così mi sono fatta coraggio, ho continuato a guardarmi intorno, a consumare la mia dose di maltodestrine ogni 9 km, accompagnate da abbondante libagione di acqua, godendomi il panorama. Oltre al Bronx, infatti, che oggi niente ha a che vedere con alcune memorie cinematografiche che taluni miei coscritti potrebbero coltivare, si attraversa Harlem, dove naturalmente la festa è tutta per i fratelli neri, i quali sono generosi e la dividono anche con noi altri pallidi. Manhattan mi ha entusiasmato meno di Brooklyn, anche se, va detto, guardare la fiumana umana davanti a sé e capire di farne parte è qualcosa di incredibile. Ancora oggi, a chi mi chieda com'è la maratona, la prima risposta che trovo spontaneo dare è: "Falla!". Non per sfida o spocchia, ma perché mi rendo conto che le parole sono insufficienti e inadatte a descrivere l'emozione provata trovandomici dentro.
Così, trasportata dalla mie gambe, sono arrivata a Central Park, dove mi aspettava l'ennesima salita. Sì, perché una delle informazioni che più di ogni altra ho ricavato dall'esperienza di questa maratona è che New York è una città di colline, falsi piani, dossi, salite e discese. L'avreste mai detto? Io no. Il percorso prevede che si entri nel parco una prima volta, poi che se ne esca, a Columbus Circle, infine che se ne varchino nuovamente in cancelli fino a tagliare il traguardo, è sempre all'interno del parco. Poco prima dell'ingresso, quindi circa a meno 5 km dalla fine, ho finalmente visto i "cognati" che purtroppo avevo invece mancato all'inizio della First Avenue, in quel momento di crisi in cui mi ero concentrata e la mia mente si era per un poco di tempo assentata.
Questa volta si erano decisamente resi evidenti, non c'è che dire. Così sono riuscita ad avere un'altra magnifica foto, in cui sembro quasi un'atleta vera, oltre a una seconda immagine scattata quando, dopo l'entusiasmo del saluto, mi sono ricomposta per recuperare la concentrazione e arrivare sino in fondo, anche se ormai sentivo che ce l'avevo fatta.
Gli ultimi chilometri sono stati interminabili. Il clima si era anche un poco irrigidito, il sole andava e veniva, e quando se ne andava faceva parecchio freddo. Dirò che non mi sono neanche accorta di aver tagliato il traguardo: banalmente ho visto che ci fotografavano dall'alto, che quelli davanti a me si fermavano e che arrivava una coperta di stagnola, così mi sono fermata anche io.
È iniziata allora una lunga camminata lenta lenta, segnata da alcune tappe pressappoco in quest'ordine: riaccensione del telefonino e bombardamento di messaggi WhatsApp dall'Italia, da tutti coloro che avevano seguito la gara grazie all'app TCS New York City Marathon, impallamento del telefonino medesimo (mi era stato detto) evidentemente per un traffico in rete come manco a Capodanno, medaglia al collo, pesante come il giogo di un bue, ma bellissima!!! L'ho tenuta addosso fino a mercoledì sera (da domenica...), incontro con Alessandro, l'amico runner del circolo "la Gardanella", arrivato pochissimo dopo.
Poi ci sono state le telefonate (il telefono è resuscitato), il meraviglioso post race poncho enorme, impermeabile con interno di pile, che mi ha tenuto calda sino a casa, il sacchetto con le bevande e qualche cosa da mangiare offerto dall'organizzazione, il ricongiungimento con i parenti che stavano diventando pupazzi di neve a Columbus Circle.
Che bellezza. Davvero, non sapete cosa darei per tornare sul ponte di Verrazzano e ripartire.
P.S. per la mia personale esperienza, si recupera più in fretta se, dopo la corsa, – non pensate che io sia da camicia di forza... – si fa una nuotata. Mezz'ora, una quarantina di vasche (alla mia velocità) vi pongono in condizione di godervi la serata e soprattutto la giornata seguente. Alloggiavo al Financial District, sicché mi sono appoggiata a questa struttura Asphalt Green nella sede di Battery Park, che, come potete vedere dalla foto a destra, ha una piscina bellissima. L'ingresso costa 35 dollari. Con 2 dollari, danno anche asciugamano e lucchetto (io avevo i miei). Shampo, docciaschiuma, balsamo, crema idratante, phon gratuiti a disposizione.
Per il resto che dire. Aspetto che qualcuno mi dica “vorrei correre la Maratona di New York. Ci verresti con me?”. Intanto sto pensando alle Abbott 6, il grande slam delle maratone, New York, Boston, Chicago, Tokyo, Londra e Berlino... chissà.


Eleonora Vasta

(Milano, 29 ottobre 1969) liceo classico e laurea in lettere antiche, dal 1994 lavora al Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa e dal 1997 ne coordina il settore editoriale, sulla carta stampata e sul web. È Editor della pagina Facebook aziendale che vanta oltre 180.000 fan.
Il lavoro l’ha portata anche all’estero, con il “suo” teatro, per alcune prestigiose tournée negli USA, in Russia, Canada, Regno Unito, Europa.
Cinefila, vorace lettrice, melomane, runner, swimmer e diver – oltre che “sportiva da divano” per altre discipline – Eleonora ama molto viaggiare, è una persona curiosa e crede fortemente nella divulgazione culturale per migliorare la nostra vita in questo mondo.



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Commenti

Marathon readers

Adesso però inizia la maratona per i followers di Orlando Pizzolato: ovvero leggersi tutto quello che hai scritto! :-)

Saul20/11/2019 18:38:42


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