anno 2012

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16/10/2012

Pizzowhat di Correre - Numero 333 - Luglio - Sport e salute: a che gioco giochiamo?

PIZZOWHAT
Numero 333
Luglio 2012

Sport e salute: a che gioco giochiamo?

Tra i dati che invito ad inserire nel diario di allenamento agli atleti che alleno, c’è l’indice dello sforzo. Distanza, tempo, ritmo consentono di valutare l’andamento di una seduta. Forte o piano sono quindi termini che si basano su un riscontro oggettivo, ma ben sappiamo che un’analoga seduta, per esempio una corsa media di dieci chilometri, può rappresentare un impegno fisico ben differente quando le condizioni climatiche divergono. Una corsa media può rappresentare uno sforzo molto maggiore quando la si corre in piena estate, rispetto invece ad una piacevole giornata primaverile. Esprimere pertanto una sensazione fisica indicando un numero aiuta a capire se la seduta è stata più o meno difficoltosa. L’indice di sforzo che propongo di registrare varia da dieci, per evidenziare la massima fatica, ad uno per rilevare invece un impegno trascurabile, come quello che ho appena sostenuto, che non registrerò nel diario di allenamento.
Eppure si è trattato di una prova importante, irrinunciabile, non sul piano atletico, ma fisico. Esco da uno studio medico dove ho sostenuto la visita d’idoneità agonistica.
Abituato a registrare spesso nei miei diari sedute con indice di sforzo che oscillando tra 6 e 9, sono atleticamente un po’ deluso dallo sforzo ho appena sostenuto. Mi chiedo quanto sia attendibile l’indagine della visita per l’idoneità agonistica visto che il mio cuore non sale neppure alla soglia di una corsa da jogger.
Metto a tacere la coscienza atletica pensando che non si tratta di verificare la condizione di forma, che farei con altri test, ma di sondare la mia salute. E’ bastato un modesto impegno aerobico, proprio quello del protocollo approntato per l’idoneità agonistica, per evidenziare che è tutto a posto. Posso continuare a competere, ad ingaggiare sfide con gli avversari ed il cronometro.
Spero che andrà tutto bene, ma non mi riferisco alle prestazioni. In questa fase della mia carriera podistica, arrivare sul traguardo una manciata di secondi prima o dopo, non mi altera l’umore e l’autostima. Spero che andrà tutto bene per quanto riguarda la salute.
Il ricordo di casi recenti di morte improvvisa di sportivi, giovani ed allenati, sono però presenti e qualche preoccupazione viaggia nella mia mente.
Sapere che l’Italia è all’avanguardia nei controlli sanitari sugli sportivi non mi dà completa serenità. Gli scienziati che tutelano la nostra salute riferiscono che le indagini cui siamo sottoposti, quando si fa la visita di idoneità agonistica, non forniscono la certezza assoluta dall’esclusione di un incidente fisico improvviso. Anche se per fortuna le probabilità che il nostro corpo ceda sotto sforzo sono molto limitate, ridotte al minimo.
E per questi flebili timori dovrei smettere di praticare sport? Dovrei rinunciare al benessere fisico e mentale che consegue ad una faticosa sudata? Una sorta d’istinto di sopravvivenza mi spingerebbe a dire di si, ma sento che non ne sono capace. Sarebbe una rinuncia molto forte, più vitale del rischio cui vado incontro, e mentre sto sbuffando lungo un’erta salita, sento che i dubbi naufragano nelle poche gocce di sudore che colano lungo il viso. La paura non si diffonde, viene anzi respinta.
Potrei rinunciare alle tante positive sensazioni che la fatica di una corsa mi fa sentire? No.
E non riesco neppure ad impormi di andare piano, di non stressare il corpo, di risparmiare il cuore. Il piacere dello sforzo prevale, e nei miei pensieri scorrono le immagini di Piermario Morosini, che prima di cedere ha reagito una, due, tre volte. Non si è arreso, si è rialzato, ha cercato di continuare a correre, perché… era così bello e così importante correre…

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