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21/03/2020

Il racconto di Andrea - Tempo scaduto

RUNNERS&WRITERS
Anno 8 - numero 183
Sabato 21 marzo 2020

Tempo scaduto

La vittima non poteva muoversi perché aveva i polsi e le caviglie stretti da robuste corde che la tenevano saldamente legata al tavolo sul quale era sdraiata.
Si chiamava Matteo Fortini e aveva venticinque anni.
Sentiva freddo perché era completamente nudo e l’ambiente non era riscaldato a sufficienza.
Gli abiti che indossava prima di finire in quel luogo gli erano stati tagliati con forbici affilate e gettati sul pavimento.
Non sapeva come era finito lì.
Ricordava che stava tornando a casa alle cinque, dopo aver trascorso la nottata in discoteca, percorrendo a piedi il breve tratto di strada che separava il punto dove lo aveva fatto scendere il suo amico Danilo dall’abitazione, quando aveva sentito uno specie di sibilo, seguito dal dolore simile ad una puntura.
Forse gli era stata sparata una siringa contenente sonnifero.
Aveva sicuramente perso conoscenza e si era risvegliato in quella posizione.
Aveva da poco ripreso conoscenza quando si era avvicinata una figura umana.
A causa della scarsa illuminazione aveva capito che si trattava di un uomo solamente quando gli era stato vicinissimo.
La paura che prima provava si era tramutata in terrore: l’uomo, che indossava una tuta completamente nera e guanti di lattice, aveva il volto coperto da una maschera che raffigurava un sorridente fantasmino Casper e una berretta, anch’essa nera, che copriva la testa.
L’espressione allegra della maschera strideva decisamente con tutto il resto.
L’uomo, senza dire una parola, era andato ad accendere una potente lampada, poi si era seduto di fianco a Matteo.
Da una tasca aveva preso una scatola di spilli, l’aveva aperta e ne aveva scelto uno a caso.
Con studiata lentezza lo aveva avvicinato al volto del ragazzo e con precisione chirurgica lo aveva piantato in un punto estremamente sensibile.
Matteo, che non era mai stato un campione di sopportazione del dolore, aveva urlato disperatamente.
Per nulla impietosito, l’aguzzino aveva proseguito la sua attività arrivando a conficcare venticinque spilli, a gruppi di cinque, in varie parti del corpo della vittima, scegliendo sempre con cura i punti più sensibili.
Giunto al numero che evidentemente si era prefissato, l’uomo si era alzato, aveva acceso un computer portatile e selezionato una cartella di musica.
Dalle casse collegate era partito il brano ‘In my time of dying’ dei Led Zeppelin.
Dopo aver coperto Matteo con un piumone, l’uomo aveva spento la lampada ed era uscito lasciando in funzione il computer.
Terminato il primo brano, era stata la volta di ‘Whole lotta love’ e di altri tre brani dello stesso gruppo.
Dopo i Led Zeppelin erano arrivati i Deep Purple con cinque brani tra i quali ‘Smoke on the water’ e ‘Child in time’, poi altri tre gruppi, anch’essi classificati come ‘Hard-rock’.
Si trattava di Black Sabbath, Uriah Heep e Scorpions.
Dopo i gruppi hard c’erano stati cinque gruppi ‘progressive rock’: Genesis, Van der Graaf Generator, King Crimson, Yes e Jethro Tull.
Per ciascun gruppo erano stati selezionati cinque brani.
Matteo, pur terrorizzato e tormentato dal dolore che gli causavano gli spilli, già dopo aver ascoltato i primi tre gruppi aveva iniziato a porsi delle domande.
Si chiedeva chi poteva essere l’individuo che lo aveva portato lì e per quale motivo lo avesse torturato con gli spilli.
Aveva iniziato a ritenere che si trattasse di qualcuno che lo conosceva e che conosceva anche la sua famiglia.
Quando era bambino, Casper era il suo personaggio preferito, tanto che non perdeva occasione per guardare film e cartoni trasmessi in tv e per due o tre anni aveva indossato il costume con tanto di maschera durante il periodo del carnevale.
Cinque era il suo numero preferito da sempre, e anche quello più presente nelle pagelle scolastiche del suo travagliato percorso di istruzione interrotto senza arrivare neppure al diploma.
L’hard e il prog rock erano i generi musicali preferiti dai suoi genitori e i gruppi ascoltati erano tra i loro preferiti.
Aveva iniziato a pensare alle persone che frequentavano assiduamente la sua famiglia, cercando per ciascuno un motivo che potesse giustificare un simile comportamento.
Nessuno degli amici, suoi o dei genitori, rispondeva all’identikit che aveva tracciato.
Era passato allora ad esaminare tutti coloro coi quali aveva avuto dei diverbi e qui la lista dei possibili candidati era piuttosto lunga.
Poteva trattarsi del fidanzato di Elisa, una bellissima ragazza che lui era riuscito a “farsi” alcune volte.
L’ultima di queste Giorgio, il fidanzato, li aveva trovati nel momento sbagliato e aveva iniziato ad offenderli pesantemente, minacciando di fare chissà quali sfracelli.
Stufo di sentirlo sbraitare tanto a lungo per una cosa di così poco conto, gli aveva assestato un bel pugno sul naso, fratturandogli il setto.
Il gesto gli era costato qualche guaio giudiziario, una ramanzina dei genitori che avevano dovuto sborsare un po’ di quattrini e la perdita di Elisa.
Dopo attenta riflessione aveva deciso che non poteva essere lui perché l’aguzzino, da quanto aveva notato, era di corporatura decisamente più robusta e, forse, anche più alto.
Era passato al padre e al fratello della tipa che lo aveva accusato di stupro.
Ricordava perfettamente come si erano svolti i fatti ed era stato fortunato a trovare un giudice comprensivo che non aveva creduto alle ‘balle’ della ragazza.
Aveva conosciuto Deborah in una discoteca e aveva attaccato bottone.
Non gli piaceva granché ma poteva essere passabile, quindi l’aveva fatta bere un po’ per farla sciogliere.
Dopo aver ballato per un’ora, l’aveva invitata a seguirlo in auto, cosa che lei aveva fatto.
Avevano raggiunto un posticino isolato e tutto andava per il meglio, ma, giunto il momento di concludere nel ‘giusto’ modo la serata, lei aveva detto che voleva tornare a casa e lui, per non rinunciare a quanto aveva programmato, era stato costretto a ‘forzare un po’ le cose’.
Due giorni dopo i carabinieri si erano presentati a casa sua per notificargli la denuncia e, poco tempo dopo, era comparso di fronte al giudice.
Era stato assolto per non aver commesso il fatto.
Il giudice aveva chiarito che se una donna segue un uomo e si apparta con lui è ovvio che è consenziente.
I familiari della ‘vittima’ (padre, madre e fratello) si erano molto alterati alla lettura della sentenza ed avevano urlato che si sarebbero fatti giustizia da soli, ma, a pensarci bene, non sembravano tipi capaci di una simile azione.
Aveva deciso di scartare anche questa ipotesi.
Poco dopo, sopraffatto dalla stanchezza, si era addormentato, nonostante il tormento che gli arrecavano gli spilli.
Lo aveva risvegliato qualche ora dopo l’uomo che, dopo aver tolto il piumone, lo stava liberando da tutti gli spilli.
Aveva sperato di essere liberato anche dalle corde, ma questa aspettativa era stata di breve durata.
L’aguzzino aveva estratto da una borsa dei pezzi di carta vetrata e aveva iniziato a procurargli delle dolorose abrasioni su braccia, gambe e tronco.
Il peggio però doveva ancora arrivare: l’uomo aveva preso dalla borsa una bottiglia di alcol puro e lo aveva spruzzato su tutto il corpo dello sventurato.
Il bruciore sulle ferite fresche era fortissimo e Matteo aveva urlato come mai in vita sua.
Aveva chiesto: “Chi sei? Cosa ti ho fatto per essere trattato così? Smettila, non ce la faccio più”.
Non aveva ottenuto nessuna risposta e nessuna reazione.
L’uomo, dopo aver spruzzato per cinque volte l’alcol sulle venticinque abrasioni, aveva ricoperto la sua vittima, aveva fatto ripartire la musica dal computer (sempre gli stessi brani) ed era andato via.
Il bruciore si stava attenuando, mentre cresceva la paura.
Aveva iniziato a chiedersi se si sarebbe salvato, se avrebbe mai fatto ritorno alla sua casa, se avrebbe rivisto i genitori.
Aveva anche sete e fame e gli dolevano i muscoli di tutto il corpo.
Per tentare di dimenticare i malanni fisici aveva ripreso a fare ipotesi su chi potesse essere il bastardo.
Un possibile candidato poteva essere il padre del ragazzo che era morto nell’incidente nel quale era rimasto coinvolto anche lui (era più corretto affermare che lui lo aveva provocato), anche se gli pareva piuttosto improbabile, considerato che, quando si erano parlati, costui aveva capito che si era trattato di una disgrazia e lo aveva perdonato.
Anche se erano passati quattro anni, ricordava tutti i particolari come se tutto fosse accaduto poche ore prima.
Quella notte per andare in discoteca aveva preso lui l’auto e aveva portato con sé tre amici.
A mezzanotte circa erano arrivati nel locale prescelto, ‘Il rapace notturno’, e, appena entrato, si era procurato un po’ di ‘roba’ per andare su di giri.
Aveva anche bevuto il necessario e la nottata si stava rivelando veramente divertente.
Alle tre uno dei suoi amici, non abituato alle ‘vitamine’, gli aveva detto che non si sentiva bene e che voleva tornare a casa.
Controvoglia aveva raccolto anche gli altri due amici e tutti erano usciti e saliti in auto.
L’alcol e le altre sostanze assunte lo facevano sentire in gran forma ed era partito di gran carriera guidando come solo un ‘ottimo’ pilota sa fare.
Dopo dieci chilometri fatti ‘a tutta’ era giunto in un incrocio dove per lui c’era l’obbligo di dare la precedenza.
Aveva visto i fari di un’auto che si avvicinava, ma era sicuro che poteva passare per primo.
Non aveva rallentato e aveva centrato in pieno l’altra auto proprio in corrispondenza della portiera del conducente.
Il ragazzo alla guida, un ventunenne studente di ingegneria che tornava da un’altra discoteca con due amici, centrato in pieno, era morto sul colpo, mentre gli altri avevano riportato solamente lievi contusioni.
Lui e i suoi compagni invece erano rimasti illesi.
I poliziotti intervenuti gli avevano fatto il controllo col ‘palloncino’ rilevando un tasso alcolico nel sangue decisamente elevato.
Le analisi effettuate all’ospedale, dove era stato accompagnato per ulteriori accertamenti, avevano anche evidenziato l’uso di sostanze stupefacenti.
Gli era stata ritirata la patente ed era stato accusato di omicidio colposo.
Al processo aveva spiegato che alcol e droghe non avevano influito sulla vicenda e che si era solo trattato di un tragico errore di valutazione, causato anche dal comportamento dell’altro ragazzo che, a suo dire, aveva accelerato proprio in prossimità dell’incrocio.
Il giudice, che si era basato sui rilievi effettuati delle forze dell’ordine, non gli aveva creduto e gli aveva inflitto una pena che lui giudicava estremamente severa.
Per fortuna non era finito in galera, ma agli arresti domiciliari per diciotto mesi.
Era stata veramente dura non poter uscire.
Mentre era relegato in casa era andato a trovarlo anche il padre di Roberto, il ragazzo investito.
L’uomo, ancora molto scosso, si era presentato dopo diversi mesi dalla conclusione del processo. Aveva espresso vicinanza ai suoi genitori, ritenendo anch’essi vittime di quanto accaduto. A Matteo aveva chiesto di ripetere di nuovo come si erano svolti i fatti e lo aveva ascoltato con molta attenzione.
Il ragazzo aveva concluso affermando: “Molti mi chiedono se sono pentito di quello che ho fatto. La mia risposta è NO perché non ho fatto nulla di cui debba pentirmi. Mi dispiace tantissimo per Roberto, ma si è trattato di una fatalità.”
Si era sentito rispondere: “Sono distrutto per la perdita di mio figlio, ma capisco che, come dici tu, è solo colpa del fato.
Ho deciso di perdonarti, ammesso che ci sia qualcosa da perdonare.”
Il discorso si era spostato su altri argomenti più leggeri e alla discussione si erano uniti anche i suoi genitori.
Dopo due ore l’uomo era uscito e non lo aveva mai più incontrato.
Non poteva essere lui l’individuo che lo stava tenendo prigioniero, anche se le caratteristiche fisiche (altezza e corporatura) erano le stesse.
Se avesse voluto vendicarsi, pensava, lo avrebbe fatto certamente molto tempo prima.
Non restava che il tizio al quale aveva rotto una gamba durante una partita di calcio.
Matteo, difensore centrale, era molto più lento dell’avversario e se lo vedeva sfuggire da ogni parte, con o senza la palla.
Aveva deciso che, alla prima occasione, sarebbe entrato deciso sulla caviglia per intimorirlo.
Appena il suo avversario aveva ricevuto palla mentre era sufficientemente vicino, era entrato in scivolata con grande determinazione centrandolo dieci centimetri sopra la caviglia destra.
Nell’impatto tibia e perone avevano ceduto e si erano fratturati.
Purtroppo anche lui aveva dovuto uscire dal campo perché l’arbitro lo aveva espulso e a nulla erano valse le sue lamentele.
Questo episodio risaliva a dieci mesi prima e, anche se non aveva più saputo niente, il tipo poteva nutrire propositi di vendetta.
Magari era uno squilibrato che reagiva in modo esagerato alle negatività che ci riserva a volte la vita.
Fisicamente, tra l’altro, a ben pensarci, non trovava differenze apprezzabili col suo carceriere.
Ormai era certo di aver individuato l’aguzzino, anche se non capiva come avesse fatto a sapere tutte quelle cose su di lui e la sua famiglia (la passione per Casper, il numero cinque, i gusti musicali).
Ma cosa dire per convincerlo a lasciarlo libero? Con questo pensiero si era addormentato.
Al quinto giorno, quando era ormai fortemente debilitato da fame, sete e sevizie, l’uomo lo aveva slegato e, dopo averlo sistemato su una sedia, si era tolto la maschera.
“Tu?” si era lasciato sfuggire meccanicamente. “Sei venuto in casa mia col solo scopo di carpire informazioni. Ma perché hai aspettato così a lungo?”
Giuseppe, il padre di Roberto, col volto devastato dal dolore e dalla follia aveva risposto: “Ho aspettato tanto perché speravo che ti presentassi da me a chiedere perdono, speravo di sentire una parola oppure di vedere da te un gesto di pentimento per quello che hai fatto. Tu hai distrutto la mia vita e quella di mia moglie e avrei voluto evitare di far provare ai tuoi genitori la stessa esperienza, ma ora ho cambiato idea in proposito. Tu sei un pessimo individuo, sai creare solamente sofferenza in chi ti incontra. Mi sono informato bene e quindi so per certo che i tuoi comportamenti non hanno mai brillato per etica morale.
Nella tua vita hai fatto un sacco di errori, sicuramente uno di troppo. In questi giorni ti ho mandato un sacco di segnali per farti capire chi ero, con la speranza che tu ti ravvedessi.
Questo ti avrebbe salvato, ma ora il tempo è scaduto.”
Alcuni mesi dopo le trasmissioni televisive dedicate alle persone scomparse continuavano a fare ipotesi sulla sparizione di Matteo.

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Andrea Menegon Tasselli

Nato nel 1958 a Lugo di Romagna dove vivo tuttora, di professione bancario, podista da molti anni. Da circa tre anni scrivo racconti che toccano vari generi (umorismo, giallo, fantascienza) con la speranza che a qualcuno piacciano, conscio comunque di essere scrittore molto dilettante.
Le mie "opere" si trovano su questi siti:
http://www.braviautori.com/andrea-menegon.htm
http://www.lopcom.it/Monografie/andrea-menegon-tasselli1



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